DOGS
Ho un grande rispetto per questi autori di cortometraggi: persone che dedicano il loro tempo ad una passione, a volte ben sapendo che non ne guadagneranno nulla. Potrebbero fare come i loro amici e andarsene allo stadio; invece si mettono a tavolino e si sforzano di dirigere: molte persone dovrebbero prendere esempio da loro; e per quel che riguarda i critici, essi dovrebbero affrontare i lavori che ne derivano (anche se brutti, mal recitati, stupidi) con il necessario rispetto che va dato non tanto al prodotto in se per se, quanto alla dedizione di una persona.
Certo, ovviamente ci sono anche certi figuri che farebbero meglio a lasciar perdere, e mi riferisco a quelli che pensano di essere bravissimi quando invece non lo sono, perseverano nei propri errori incuranti del giudizio degli altri, non crescono ma rimangono bloccati nel limbo della loro auto-celebrazione o delle loro ossessioni. Ma queste persone sono una minima parte (e non mi sto ovviamente riferendo al corto che recensisco qui), mentre la gran parte degli appassionati sono persone sinceramente innamorate di un modo di raccontare, e che cercano di fare il loro meglio per realizzare i loro sogni.
Leggendo il curriculum artistico di questo regista leggo che ha diretto due corti nel 2009, e che nel 2010 ne ha scritto un terzo…che ancora non ha visto la luce. Impedimenti di vita? Lavorativi? Oltre un anno è un lungo periodo di tempo…Ancora prima di vedere il corto in concorso, quindi, è necessario un plauso – a lui, come a tutti gli altri partecipanti – per la perseveranza.
E iniziamo.
Prologo composto di primi piani molto serrati. C’è una ragione dietro tale scelta, come per l’inquadratura del musino del cane (titolo del corto a parte) a metà scena? A noi non pare. (ricordarsi che certe scelte vanno giustificate in qualche modo, e non vanno adottate solo perché “sembrano belle”)
Buoni i titoli di testa e la rappresentazione del gruppo di ragazzi con le loro dinamiche. Un po’ meno la discussione politica in terrazza, e non appena si sentono strani rumori alla porta, ecco che il regista cade ancora nel trabocchetto di inserire primi piani secchi e inquadrature eccessivamente atmosferiche senza che ci sia nulla sostenerne l’opportunità. Parlo della camminata del ragazzo con la telecamera davanti al viso, che si sarebbe potuta tollerare meglio se fosse stata calata nel contesto artistico del corto (nel senso: sono Argento, giro tutti i miei film così, di inquadrature del genere ne metto quante ne voglio, al momento giusto, e creo il mio stile. Ma se io regista sto girando un corto con inquadrature piane e scansione dei tempi molto realistica, un’inquadratura del genere, così “personale” e artistica posta di punto in bianco, appare solo stonata.) E stesso discorso sulla ravvicinata traballante al viso dello stesso ragazzo dopo che ha chiuso la porta. “Tutto a posto, amore?” chiede la sua fidanzata…la telecamera avanza minacciosa verso il viso di lui, arriva al particolare degli occhi…e li risponde semplicemente “Si.”
E’ un po’ come se la scena fosse stata questa: un uomo è fermo alla fermata di un autobus. Si avvicina una ragazza. Che ore sono?, gli chiede. La camera centra il viso di lui, gli si avvicina traballando, la musica cresce, si inquadra il viso stranito…l’uomo apre la bocca…e dice...“le otto e venti”. Fine. A cosa serve una ripresa così caratterizzata per una scena che non porta a nessuna tensione? A nulla. L’errore sembra quindi plateale. Non sarebbe stato tale sono in un caso: se dietro la porta il nostro eroe si aspettasse di TROVARE DAVVERO qualcuno, e cioè l’assassino che deve uccidere tutti i suoi amici con la sua complicità (e al momento non ho ancora visto tutto il corto, quindi non so se è davvero così). A questo punto la sua ansia sottolineata dal regista sarebbe lecita. Altrimenti, rimane uno sfoggio di stile fuori contesto.
Comunque, la porta sbatte, e subito tutti diventano nervosi per nessuna plausibile ragione. Troppo poco è accaduto per giustificare una così tremenda fifa generale, ma tant’è. L’istante dopo un maniaco armato di motosega fa a pezzi i due fidanzati di turno senza che nessuno all’interno dell’appartamento se ne accorga (basta una radiolina a mascherare una motosega più eventuali urla? poco plausibile). E quando il padrone di casa e il suo amico vanno a cercare i due, e fanno capolino nella stanza buia, non si premurano evidentemente di accendere la luce (altrimenti dovrebbero accorgersi che la stanza non può che essere necessariamente ricoperta di sangue) ma tornano indietro stabilendo che i due amici se ne sono andati. Possibile? In un appartamento così piccolo? Proprio no (a meno che, come nel caso precedente, il padrone di casa e il suo amico non siano complici dell’assassino)
E poi, non c’era un cane in casa? Se fosse entrato un assassino immagino che un’ abbaiata l’avrebbe fatta (oh, ma probabilmente è già stato sgozzato.)
Ma siamo già al finale, e qui il già fragile castello di carte crolla senza possibilità di appello. Il protagonista rimasto solo viene svegliato di notte dall’abbaiare del cagnetto…che quindi non era morto, ma non ha pensato dunque di abbaiare all’assassino…Si sveglia dunque l’eroe, infila una mano sotto il letto, si sentono suoni di leccata, dopodichè il nostro si alza, tira il collare…e segue una scena di buio che non sono riuscito a capire. Cosa succede? Tira fuori da sotto il letto il cane morto? Non so, non si vede nulla. L’attimo dopo il nostro eroe va in bagno: “anche gli uomini possono leccare”, recita una scritta allo specchio. Dietro di lui appare l’assassino. Chiuso.
La scena finale, e dunque l’intero corto, si fonda dunque su una delle più classiche leggende urbane americane del nostro secolo, e cioè quella della ragazza che risvegliatasi da un lungo sonno tranquillo scopre che la lingua che la leccava durante la notte non era quella del suo cane, bensì quella dell’assassino che nel frattempo ha sterminato la sua compagna di stanza/la sua famiglia, si è fermato da lei, ha ucciso il suo cane, e poi se ne è andato lasciandole quel terrificante messaggio. Peccato che in questo caso, oltre alle ingenuità già raccontate, anche la leggenda urbana vera e propria sia stata riportata con inesattezza ed imprecisione. Perché? Ma per il semplice fatto che l’eroe si sveglia, si fa leccare la mano, va in bagno e scopre la scritta. Quando l’ha vergata l’assassino, che si suppone essere ancora sotto il letto, o nei paraggi della sua stanza, o che in ogni caso sbuca dietro di lui, e non davanti? Dovremmo supporre che nell’intervallo tra il risveglio, la leccata e la visita al bagno egli sia corso fuori dalla stanza, abbia trovato il bagno, il rossetto, tracciato il suo messaggio e si sia nascosto in attesa dell’arrivo del protagonista (improbabile) o che abbia ideato tutto in anticipo, prima scrivendo e poi leccando (non del tutto improbabile ma implausibile: come poteva l’assassino sapere che il nostro eroe avrebbe infilato la mano sotto il letto sentendo abbaiare il cane, o che il cane dormiva sotto il suo letto, o che l’eroe non avrebbe guardato sotto il letto e che si sarebbe infine diretto al bagno? e a quale scopo tanta teatralità?). No, mi dispiace, la rappresentazione non regge.
Anche qui, devo ammetterlo, ci troviamo davanti ad una storia che sacrifica la logica al tentativo di mostrare scene “fiche”. Che spezza ogni possibile verosimiglianza col solo scopo di far andare la storia dove il regista vuole condurla, e poco importa se essa, come una cane ribelle, cerchi di fuggire strattonando il guinzaglio: il regista lì vuole andare e lì va, dimentico di tutto il resto. E i risultati purtroppo si vedono.
Pur non dubitando assolutamente della buona fede dell’autore (a proposito: ho trovato molto adatte le musiche) ci sentiamo di consigliare anche a lui un maggior controllo della trama, a non utilizzare i suoi personaggi solo come tanti pupazzetti che servono solo a far accadere le cose, ed a non farsi affascinare soltanto dalle idee meravigliose ma di fermarsi a pensare anche alla logicità degli eventi. Certe cose non accadono solo perché sono “fiche” ma accadono perché ci sono dei presupposti che permettono ad esse di accadere: gli eventi non sono mai fini a se stessi, non prendono vita da soli, ma sono la conseguenza di un accumularsi di tanti eventi minori, come parti di un insieme che una volta unite creano un prodotto uguale alla somma delle sue parti (ed è la logica conclusione) ed altre volte è MAGGIORE della loro somma (e in questo caso è la sorpresa finale!). Un sasso che cade dal terrazzo e spappola la testa di una vecchia necessariamente deve essere arrivato in quel terrazzo per qualche motivo, messo da una persona che aveva qualche motivo per metterlo lì, dopo che aveva raccolto il sasso stesso in un qualche luogo all’aperto (i sassi di norma non nascono dentro le case) per un altro motivo ancora, magari perché era un bel sasso…e il sasso può essersi trovato lì perché è rotolato giù da una collina…e può essere rotolato giù perché qualcuno gli ha dato un calcio, e via dicendo. Interessarsi solo del fatto che ad una vecchia viene spappolata la testa da un sasso e disinteressarsi del resto, crea storie simili a quelle che abbiamo appena visto, e che non soddisfano MAI.
Invito dunque tutti gli aspiranti autori a chiedersi le stesse cose, prima di far cadere la loro pietra. Dove’era il sasso? Come ci è finito? Più logici, realistici, personali sarete voi, e più inaspettate saranno le motivazioni che hanno portato quel sasso ad essere proprio in quel posto in quel momento, più bella sarà la vostra pellicola. Altrimenti, quello che avrete sarà solo una vecchia con la testa spappolata.