00 31/05/2014 15:21
a piece of art
Zannone, non c’è niente da fare, ha una marcia in più. E come tutti i maestri fanno, con questo suo corto non solo ci offre una storia interessante, ma ci insegna una grande lezione: “poco è bello”. O meglio che non è sempre necessario usare enormi spiegamenti di mezzi e risorse, complicare la trama all’inverosimile, usare funambolismi registici per fare un buon lavoro; ma anzi: spesso e volentieri è vero il contrario.

“Portrait” è una storia semplice che più semplice non si può, privata di tutto – anche del colore (scelta peculiare quella di girare in b/n un corto che parla di pittura) – e che si apre e si chiude in 5 minuti scarsi. E’, appunto, un ritratto, l’immagine di un momento. Ma un momento che contiene in se tutto quello che lo spettatore ha bisogno di sapere.

E’ una storia valida? Beh, che dire, è semplicissima, chiaramente prevedibile fin dall’inizio, che si apre e si chiude subito senza guizzi e senza sorprese. Forse una maggiore complessità era auspicabile, ma in quei 5 minuti fa perfettamente il suo lavoro, lascia lo spettatore indifeso, grazie anche all’ottima recitazione dell’attore protagonista, perfettamente credibile nel suo ruolo.

Un protagonista carismatico a volte riesce a salvare un brutto corto, e ne esalta uno bello. Zannone credo proprio che lo sappia, e usa il suo protagonista nel migliore dei modi possibili. Non ci sono tante mossette, smorfie, frizzi e lazzi; il suo serial killer , di grande espressività e perfettamente in parte, non ha niente da dimostrare al pubblico, non ha bisogno di “legittimare” il suo ruolo o di sforzarsi di essere credibile, ma è semplicemente lì per fare il suo lavoro, dipingere, e si limita al massimo a chiedere alla sua modella di stare ferma, con aria un po’ scettica, come se parlasse a una bambina.

“Stai ferma,” le chiede, cercando di non perdere la pazienza. E quando la vittima della sua arte prova a ribellarsi, a chiedere pietà, il nostro protagonista semplicemente si stupisce che lei stia perdendo tempo, che non capisca quanto importante è la sua morte. La perfezione assoluta si raggiunge nel momento in cui la donna se la fa addosso: il serial killer la guarda e commenta: “non capirai mai.” E – rinunciando ormai a tentare di essere compreso – la uccide.

Sembra poco, ma è tanto. E’ tanto perché è un uso della “macchina cinema”, dell’immagine, al massimo delle sue possibilità, così come dovrebbe essere. Perché, se esaminiamo bene, ci accorgiamo che sì, sono le parole che traducono il senso della scena, ma sono le immagini che danno alle parole il significato, e senza di essere non si potrebbe arrivare allo stesso risultato.

Da notare anche il fatto che la vittima è deprivata di qualsiasi contenuto umano. Per il serial killer è un oggetto senza importanza, da zittire come un televisore molesto in sottofondo. Per il pubblico è semplicemente una donna capitata lì: niente ci viene detto su come, quando e dove è capitata nelle mani del maniaco, chi fosse e quale fosse la sua vita. Eppure non è perfettamente facile immedesimarsi nella sua sofferenza, capire il suo terrore, e riempire da soli i “buchi” volutamente lasciati dal regista?

Per cui credo proprio che non ci sia altro da aggiungere. La violenza è estrema ma concentrata solo lì dove serve, senza smancerie o concessioni al gusto estetico del pubblico (è, insomma, una violenza solamente funzionale alla storia). Il finale è un racconto vero e proprio senza parole, che comunica tutto tramite le immagini, e completa quello che già noi avevamo intuito, suggerendoci orrori indicibili. Gli attori sono perfetti nelle loro parti. E anche la musica, minimalista e decostruita come il corto stesso, con vaghi rimandi al cinema italiano del passato, è adattissima all’occasione.

Storia semplice, breve, di certo non innovativa o sorprendente, non un capolavoro, ma narrata con grande stile e tecnica, con padronanza dei mezzi, senza perdite di tempo ma diretta con sicurezza verso il suo obiettivo. Un ottimo lavoro.