00 29/01/2023 11:37
Parto subito col dire che mi è piaciuto abbastanza: il mio voto è un più che dignitoso 6 e mezzo e vi spiego perché.
Il film in sé non ha nulla di particolarmente originale: pupazzi e bambole assassine imperversano nel cinema da decenni, così come il tema dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale, che è già stato declinato in svariati modi (da Terminator, già citato da Perfect, fino a quel gioiellino – ma di tutt’altro genere - che è Her di Spike Jonze).
Del resto, è esattamente il tipo di film che meglio si presta ad una rivisitazione aggiornata, anche se questo Megan ’ho trovato per certi versi molto anni ’80, soprattutto nel finale, e sostanzialmente la trama non aggiunge nulla di nuovo alla moltitudine di storie già raccontate.
Il film comunque funziona e intrattiene, anche se la tensione a volte latita, la bambola non è poi così inquietante, il sangue è quasi totalmente assente.
Tuttavia, ci sono un paio di omicidi gustosamente “scorretti” e alcune sequenze veramente ben realizzate (una su tutte, quella nel bosco col ragazzino stronzo; e NON quella del balletto, mio dio).
Quello che però ho davvero apprezzato (e che in tutta onestà non mi aspettavo da un prodotto Blumhouse scritto da James Wan) è proprio l’aspetto sottolineato da Perfect: l’aderenza alla realtà; e non parlo ovviamente della credibilità dal punto di vista tecnologico (del resto, è già di per sé poco plausibile che un produttore di giocattoli, per quanto avanzati, decida di dotare una bambola di forza sovrannaturale), ma della particolare attenzione e sensibilità con cui viene trattato il tema dei rapporti umani in relazione alla tecnologia.
Oggetto di critica è soprattutto la genitorialità e il fenomeno allarmante (presente e reale da almeno 15 anni, forse anche più) del delegare a un qualsiasi device il compito di passare del tempo con i propri figli.
Scusate, ma questo argomento tocca particolarmente le mie corde: vado in bestia quando vedo bambini che ancora non sanno parlare, abbandonati a sé stessi con in mano uno smartphone o un tablet, mentre i genitori si fanno bellamente i cazzi loro (il più delle volte, ca va sans dire, sul cellulare).
Questo tema è reso particolarmente bene nel rapporto tra Cady, che ha appena perso i genitori in un incidente, e Gemma, la zia che prende in affido la bambina, più per dovere che per un reale trasporto affettivo. Mentre Cady avrebbe bisogno di affetto e attenzioni come qualunque bambino, con l'aggravante che è pure reduce dal peggior trauma che possa capitarti a 9 anni, Gemma è una giovane donna in carriera, priva di qualsiasi attitudine alla maternità, che progetta giocattoli tecnologici destinati ai bambini ma in realtà a tutto vantaggio degli adulti che potranno così “avere il tempo di dedicarsi alle cose importanti”, mentre a prendersi cura dei loro pargoli penserà un’intelligenza artificiale, disposta a giocarci, parlarci, ascoltarli, consolarli.
Cioè a fare le cose meno importanti.
Forse non era questo l’obiettivo del film, ma a me ha messo addosso una tristezza infinita.

P.S. Molto realistica anche la reazione della bimba quando viene privata dell'adorata bambola.
Vi è mai capitato di vedere un bambino dipendente da smartphone/tablet/playstation o vattelapesca a cui viene tolto improvvisamente l'adorato device? A me sì, e vi garantisco che nella realtà succede anche di peggio.