Tsumetai Nettaigyo (Cold Fish) è l'ultima fatica di Shion Sono, regista nipponico del quale avevo già avuto modo di apprezzare sia l'originale Ekusute che lo schizofrenico Suicide Club; il nostro si inserisce a pieno titolo nel novero dei folli cineasti giapponesi capaci di miscelare il gore più sadico ad un reale interesse sociologico e, perché no, di denuncia.
Thought-provoking, direbbero gli inglesi.
In estrema sintesi abbiamo Nobuyuki Syamoto, proprietario di un piccolo ma decoroso negozio di pesci tropicali. Syamoto ha una moglie giovane e attraente ed una figlia ribelle e anche un pochino troia, che non accetta la nuova madre, odiando di riflesso anche il padre (la madre effettiva è morta).
La giovanotta viene pescata a rubare in un supermercato, ma scampa alla denuncia grazie al generoso intervento di mister Murata, un imprenditore di successo che commercia in pesci tropicali e possiede una immensa catena di acquari.
Murata è un tipo fuori dalle righe, dispensa consigli, allegria, battute di spirito e un sacco di energia, assume la figlia di Syamoto per aiutarla a crescere, salvo poi rivelarsi fulcro di una efferata attività criminale con la quale il nostro si sollazza nello sfamare i pesci di un fiumiciattolo non lontano con i resti delle sue vittime, accuratamente fatte a fettine e disossate all'uopo. Inevitabile che ne faccia le spese proprio Syamoto, coinvolto in qualcosa di insostenibilmente aberrante: ma sarà proprio la follia di Murata a rivelare gli istinti primordiali e latenti del povero Nobuyuki, in un crescendo di sangue e frattaglie.
Cold Fish è una pellicola molto particolare: è di durata estesa (si raggiungono i 144 minuti) ma risulta talmente coinvolgente nella sua lenta ma inesorabile follia da essere tanto malata quanto accattivante, fino al malefico epilogo.
Ed è una pellicola nella quale il black humour la fa da padrone in maniera assoluta, impersonificato da un Denden stratosferico, capace da solo di reggere quasi interamente l'intera struttura narrativa, portando in scena un mister Murata che rivoluziona l'idea di serial killer, estremizzandola e cospargendola di malsana ironia.
Degno comprimario è anche l'ottimo Mitsuru Fukikoshi e la sua escalation verso la totale perdita di qualsiasi forma di autocontrollo. Unleash the beast.
Sono dirige con stile essenziale, non si risparmia sui dettagli più macabri ed assume un atteggiamento quasi voyeuristico nei confronti delle tante, improvvise nefandezze alle quali assistiamo: un atteggiamento funzionale al messaggio pessimista e persino nichilista che il regista porta avanti e mai nasconde allo spettatore.
Nessuno spazio per il benché minimo segno di salvezza o redenzione.
Consigliato ai fan di Miike, a chi ama il cinema giapponese e la sua depravazione intellettuale, ai gore-maniacs e a quelli che conoscono la splendida Asuka Kurosawa e ne apprezzano l'infinita sensualità.
Per chi non la conoscesse: