Ci vedo davvero un grande sforzo, dietro.
Si è cercato di stendere su tutto, anche sui moti più convenzionali, un velo d'emozione ricercato, unico.
Ci sono scene singolari per loro stesse, certo, ma singolare è l'atmosfera che vi aleggia, sempre e comunque artificiale, sofisticata, mai riferibile al solo lavoro di pura ripresa. E l'artificio e la sofisticazione mi piacciono, se sono come questi: riusciti.
Un corto davvero nero, struggente, in cui trovano spazio interpreti toccanti e musiche all'altezza del rappresentato.
Trasmette uno stato d'animo, prima ancora che una storia, una condizione d'esistenza, prima che un racconto di vita.
Affascina coi sempre seducenti mezzi del sovvertimento delle leggi naturali, comprimendo e dilatando spazio e tempo, deformando e ricomponendo carne e pelle, confondendo presenze e corpi nel contesto dell'unica certezza incancellabile: quella del dolore.
La ciclicità dello svolgimento, che Kisson ha trovato noiosa, è a mio parere invece fondamentale, perché rimedia al rischio della eccessiva confusione e consente di partecipare in modo sufficientemente razionale alla narrazione.
Sufficientemente razionale, dico, perché poi è opportuno perdersi, lasciarsi andare e affogare nella completa disperazione che racconta il regista.
Sinceramente, lo trovo un lavoro notevolissimo.
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"Si staranno preoccupando per noi?"
"No, non ancora. Dovevamo incontrare i camion venti minuti fa; si faranno vedere soltanto fra un'ora e mezza. Alle due, cominceranno a chiedere a
qualcuno se c'hanno visto. Alle tre ci cercheranno nei bar, e verso le quattro si arrabbieranno. Alle cinque, forse qualcuno capirà che ci siamo persi. Alle sei, il capitano penserà di chiamare il comando, e lo farà solo alle sette e mezza. Dal comando risponderanno che è tardi e
che ci penseranno domani."